Manuale di pensiero comodo

Come pensare qualcosa che ti metta in gioco il meno possibile, che ti renda più inerte possibile. Come ammorbare le lotte, riappacificarsi con il proprio carnefice, offrirgli volentieri il proprio sangue. Come tenere in piedi la struttura fatiscente del proprio io invece che rapportarsi e ri-portarsi al suolo, destabilizzarsi e ricostruirsi vuoti. Come riempirsi di cose da fare e liste da portare al supermercato a mo’ di giustificazioni della propria presenza nel mondo. Come paralizzare eventuali altri, rimproverarli, considerarli come criminali, ostacolarli se si rifiutano di prostituirsi al Lavoro e di rendersi utili alla società timbrando i cartellini e scrivendo la propria scadenza: “consumarsi preferibilmente entro il… poi portare in cimitero, fare la raccolta differenziata dei morti.” Perché è meglio iniziare da vivi a scartarsi, oppure ammassarsi, nel cestino dell’ufficio, nel tempo libero… c’è pure una raccolta differenziata del tempo: part-time, ferie, full-time, giorno di malattia, giorno di maternità, ore d’aria, ore di sonno, ore di sonno in piedi, ore di sonno della memoria, ore di sonno della voglia, letargo della voglia. Ore per scrivere un manuale di pensiero comodo.
Come non sentirsi in guerra. Come disabilitare i campanelli d’allarme. Come interdire la propria intelligenza. Come inibire l’intestino. Come silenziare le viscere. Come dirsi che non c’è un motivo per lottare, che funziona tutto alla perfezione con i macelli invisibili d’umano, di carne umana. Ci vuole un pensiero coerente, un pensiero comodo. Alcuni libri non bisogna proprio aprirli, perché sono dannosi, sono contro il quieto vivere e il buon senso. L’importante è stare bene, l’importante è quello che uno pensa tra sé e sé, è l’evoluzione personale, la propria psiche, la propria spiritualità, il Nirvana degli stolti: quella sensazione di immensa pace che cancella l’immagine urlante squarciante del vicino di casa (quel povero stronzo che si è accorto che gli hanno tolto le mutande, che l’hanno lasciato senza eternità, senza tempi morti, senza tempi vivi).
E chi pensa scomodandosi lo fa perché ha il pane sotto i denti, perché è fortunato, altrimenti un lavoro lo cercherebbe con tutte le proprie forze e non lo chiamerebbe “prostituzione”. Il manuale del pensiero comodo è scritto da similpoveri che additano altri perché venderebbero tutto il surplus ricevuto e le doti tramandate insieme alle raccomandazioni della zia: «Trovatelo ricco e di buona famiglia» in cambio di un’ora d’aria in più, fuori dal carcere della civiltà. Civiltà è questa cosa che si regge sulla guerra al vicino di casa e sul sudore e il sangue del coinquilino, è arte di macelleria, arte senza abilità, per tutti, a patto che sudino, democratica a spese dei migranti bloccati sul confine, il confine di plastica, la linea nera che insudicia le narici di Dio, con la scusa retorica o il pretesto di vederlo rinascere dalle macerie della nostra umanità.
Dovremmo farci davvero maceria per contemplare il miraggio di una stella, la sua scia cadente o la coda di cometa che codifichi e indichi ai maghi la casa di El. Dovremmo dimenticare il manuale del pensiero comodo e fare maceria di quella malattia che ci ha riempito le mani e l’anima: quella voglia di fare scempio per non sentirci moribili, fusibili, di distruggere il fuori per preservare ciò che si presume un dentro, troppo lieve, troppo di carta, di velo, di vento, troppo esposto alla cessazione, al disassemblaggio, al morire lento dei tramonti… ci vuole un massacro da qualche parte per sentirci immortali come fantasmi, come mostri, come caricature di Dio, spettrali sue immagini, come caricature di animali. Dobbiamo trasformare in macchina gli occhi impauriti della bestia per criptare il suo messaggio di fallimento, di cosmico e sublime, volontario fallimento. Dobbiamo esorcizzare la nostra morte con la sua sofferenza di mucca, con la sua gabbia troppo stretta. Dobbiamo consolidare l’Occidente con gli scheletri negri miraggi degli avvoltoi. Dobbiamo stare zitti, andare al lavoro e mettere su famiglia, demandare a qualche infante le nostre colpe, le nostre insoddisfazioni di vite sprecate, dobbiamo augurarci che i nostri infanti si facciano spellare pure loro per riversare la loro non-vita sui nipoti, per moltiplicare i patrimoni dell’usurpazione, per conservare il gene. Così tra trecento anni si potrà intravedere negli occhi appena nati il gene di un dimenticato tra tanti dimenticati coglioni. La genetica è importante, i propri geni tra trecento anni quando questo posto sarà una spazzatura più grande, più cosmica, più puzzolente, più sporca, ci saranno. Ecco l’immortalità comoda, a prezzo di una pancia gonfia e di nove mesi di grossezza. Meraviglioso, certo, questo ri-significare la vita con il proprio ventre, ma non è questo popolare l’immortalità: quella scomoda via da seguire con tutta la propria morìa carnale! Forse a volte dovremmo far inceppare questa macchina della riproduzione, dovremmo interdirci da soli, per vedere il vuoto, il non gene, dovremmo degenerare un po’. Ma il manuale comodo dice di lasciare tutto in eredità, anche il tempo che non abbiamo vissuto, il tempo che non viviamo e che non vivremo mai se ci impieghiamo, se abbiamo la dignità di essere impiegati – e non pieghe, impiegati – a servizio dell’Usurpante, dell’economia, dello stato dell’economia degli usurpanti dei consumatori consumati fino al dorso, alla spina, al torso ingiacchettato, incravattato, alla cravatta che dica “presente” al posto nostro, che risponda all’appello, al cognome, ai parenti avidi di senso. Sudore da trasformare in senso, sangue da trasformare in logica del profitto, in minor sforzo e maggior fatica. Ecco, che immolazione! Ma il sacro è già stato depauperato, da tempo l’omelia è svuotata del latino e di quell’incomprensibile… perché tutto sia senso, pure in chiesa, nessuno scampo, niente che mi ricordi la polvere, la mia sostanza povera, la povertà del vento che mai si raccoglie e si domicilia, la foglia che mi certifica la sua presenza con lievi ondulazioni e senza impiegare nessuno che non sia la piega di se stessa o lo straccio colorato che diventa in autunno.
Ma è più comoda un’abitudine fissa. Ci vuole troppa attenzione per le variazioni del giorno. Oggi salvare una lumaca che stava finendo in spazzatura mi è sembrato più utile di essere chissà in quale grigio ad occupare un posto grigio per censire la morte. Censire la morte mi piace farlo, ma leggendo un libro o salvando una lumachina. Ci vuole attenzione e coraggio. Ci vuole scomodità. Eppure, se non cerco la prostituzione del mio tempo, sono pigra o viziata o con i soldi di papà. È una colpa ricevuta insieme al corredo avere la fortuna o l’arguzia di smascherare i luoghi comuni e grigi e le lumache che nei deliri casalinghi di ordine e pulizia fanno una brutta fine, proprio loro che non hanno alcuna responsabilità della nostra sozzura e della nostra ossessione del pulito quadrato metrato pavimentato, perimetrato dalla sozzura globale.

E adesso dite tutti in coro “Barabba” a meno che non siate nell’indigenza celeste, a meno che non vi siate prostituiti alle stelle, al firmamento, alle ombre taglienti di un volto, ai fiori santi della religione delle api, all’umano penzolante da uno sguardo, a quello straccio pendulo e sempre umido, nonostante gli altri panni stesi siano asciutti, lui resta humus, infradiciato d’umiltà, di pioggia, di nuvola, di sorgente, di terra, umano, diseredato, inchiodato all’assurdo di se stesso. E potete pure non essere cristiani, perché non si tratta di questo; non è un orpello appeso al collo a riassumere gli eterni poveracci, o una domenica estratta, spremuta da una settimana di faccende e di compere e di efficienza e di macchine, ad assolvervi dal vostro benedetto mostro male impiegato e mal riconosciuto (tutto questo amore male amato*, direbbe Ilaria). Non è un battesimo a lavarvi la coscienza, nessun sacramento di nessuna religione vi priva della vostra origine di disertori. Voi siete disertori dell’animale, disertori del corpo. E anch’io, ahimè, lo sono, sebbene provi a farne un urlo quotidiano. Per non lasciarmi in pace, per non fare della mia vita il manuale del pensiero comodo scritto dai simil-uomini. E come Enzo, tengo ‘na voglia e fa niente, una voglia di sposare al niente la mia giornata e la mia voglia, e stare, come un officiante, dietro le celebrazioni e i rituali del cerebro, dietro i pensieri, a silenziare, sentire solo il rumore delle viscere, e attendere la notte grande, l’indigenza stellare, l’indigenza del nome santo, il bau-bau di un cane.

 

[Note

* tutto questo amore male amato è il primo verso di una poesia di Ilaria Seclì

Non consumo altre parole per dire come si scrivano sulla carne le parole che leggo e, a volte, si riversano come incisi tra le cose che scrivo, si ributtano, rigettano, nel caos dei miei vani (e per fortuna, vani) sproloqui. Grazie a chi scrive e forse involontariamente mi scrive addosso. Grazie Ilaria!]

 

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